Questo rarissimo testo è il rifacimento einaudiano della voce Liberismo destinata al Piccolo dizionario politico, parte di un Corso di educazione civica intitolato Uomo e cittadino (Berna 1945), ora in "Annali della Fondazione Einaudi di Torino", XX 1986, pp. 151-153. Lo ripubblichiamo dedicandolo a quanti si proclamano liberisti ma operano per il suo esatto contrario.

In senso più ristretto, si definisce liberista colui il quale è contrario al protezionismo doganale e alle sue forme peggiorative, che prendono il nome di contingenti, proibizioni, vincoli ai cambi delle divise estere ed autarchia. I liberisti sono favorevoli alla libertà degli scambi di merci (ed anche alla libertà dei movimenti degli uomini) in primo luogo perché ritengono che la divisione del lavoro fra paese e paese, unita alla libertà di dedicarsi a quei lavori, a quelle industrie, a quelle coltivazioni alle quali ognuno si sente più adatto, sia mezzo efficacissimo di aumentare la produzione della ricchezza e di migliorare la distribuzione; ed in secondo luogo e sovratutto perché temono la corruzione politica. Se industriali, agricoltori, operai sanno di non poter ottenere favori dai parlamenti, non hanno interesse a corrompere od influenzare gli eletti; se invece sanno che, mandando un loro rappresentante nelle Camere ed influenzando gli altri, essi possono ottenere una legge, la quale con un dazio doganale alla frontiera, tiene lontana la concorrenza estera, nasce l’interesse a falsare la volontà del popolo ed a rendere questo servo dei loro monopoli e privilegi. Si chiamano liberisti coloro i quali preferiscono rinunciare a qualche eventuale (molto eventuale) vantaggio che in casi particolarissimi si potrebbe ottenere stabilendo un dazio a favore, ad esempio, di una industria giovane - ed i teorici hanno elencato parecchi di questi casi particolari - allo scopo di mantenere pura la vita politica, lontano dai mercanteggiamenti a cui dà necessariamente luogo la concessione di protezioni doganali. In questo senso deve essere interpretata la celebre massima laissez faire, laissez passer. Essa non vuol dire che lo stato debba lasciar passare il male, tollerare il danno dei più a vantaggio dei pochi. Vuol dire che, nella maggior parte dei casi, salvo prova contraria assai difficile a darsi, l'industriale e l'agricoltore deve essere lasciato lavorare a suo rischio e pericolo e non deve essere protetto contro la concorrenza dello straniero. Chi chiede protezione contro lo straniero o sussidi o favori dallo stato, nove volte su dieci è il nemico del suo connazionale e vuole ottenere un monopolio per estorcere prezzi più alti, profitti più lauti e salari ultranormali a danno dei suoi connazionali. Resta quel caso su dieci o su cento che meriterebbe di essere considerato, ma il liberista esita anche in confronto ad esso, perchè l'esperienza storica gli ha dimostrato che all'ombra di una iniziativa meritevole di incoraggiamento statale, passa trionfalmente il contrabbando di mille avventurieri e sfruttatori del pubblico. Il liberismo non è una dottrina economica, ma invece una tesi morale.
Tratto da "Critica liberale" n. 65, novembre 2000, p. 132
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